lunedì 3 settembre 2012

Un pò di pagine tutte mie...

Buonasera, buonasera.
Dopo due giorni durante i quali sono stata costretta a casa da una sfebbrata e un piede gonfio (non sono inciampata nè caduta, ma ai miei piedi piace gonfiarsi come palloncini, così, senza motivo), oggi sono ancora chiusa tra le mura della mia amorevole abitazione per sicurezza.
Mi auguro che il vostro week end sia stato più movimentato e divertente del mio, passato davanti alla tv e al computer, in assoluta solitudine. Ormai altre ventiquattro ore sola e poi potrò scrivere il manuale del perfetto eremita.
In tutto questo tempo passato nella straripante compagnia di me e me stessa ne ho approfittato per finire un paio di raccontini che avevo iniziato un pò di (tanto) tempo fa. Sì, insomma, una volta, da ragazzina più che altro, scrivevo. Insomma, non ero male, a molte delle mie amiche piacevano le mie storie, le trovavano originali. Ricordo ancora gli occhi sognanti della mia amica E2, che si era perdutamente innamorata di una serie di capitoli incentrati su un personaggio di mia invenzione, tutte le volte che le inviavo un nuovo capitolo della storia.
Ero più portata per la poesia, e avevo sempre un quaderno, un'agenda, un foglio  e una penna tra le mani. Io dovevo scrivere. Dovevo portare in versi o in prosa tutti i miei sentimenti: un paio di miei professori mi credevano una promessa della letteratura. Sono sempre stata una grande lettrice, ma a passare al di là del foglio... Ci vuole un certo talento.
Poi, però, si cresce e si mettono da parte i sogni e le passioni.
Fatto sta che la mia psicanalista, di fronte alla confessione di questa passione un pò sepolta dalla polvere, mi propose di fare un corso di scrittura creativa con il CSM e io ho accettato volentieri. Chissà che ritrovare i miei sogni non mi avrebbe aiutato a uscire dal tunnel della depressione. Il resto è storia.
Ora sono qui, a corso terminato da un bel pezzo, davanti al computer a scrivere dopo sei mesi se non più che non riaprivo Word.
E proprio dopo aver messo l'ultimo punto al mio ultimo racconto, il mio telefono squilla e (a volte il destino è proprio ironico!) l'organizzatrice del corso di scrittura mi dice che il 22 ci sarà la presentazione del libro con i nostri racconti.
Già, per la prima volta vedrò il mio nome stampato su una pagina, in maniera ufficiale... Mi piace il fatto che ci siano un pò di pagine tutte mie. Spero che i (pochi) lettori di questo libretto grossolano scritto da un gruppo di matti con un gran cuore, possano apprezzare le nostre storie, perchè ci rappresentano, in tutto il nostro coraggio.

P.s. Di stampo sicuramente diverso è il mio ultimo racconto, che vi riporto di seguito. Ho voglia che qualcuno legga questa storia appena sfornata.

P.p.s.s Vi avviso che io adoro il libro "Lolita" di Nabokov, quindi i miei personaggi femminili sono delle ninfette giovani, molto giovani, quindi non spaventatevi. Non sono una depravata.


LA BELLEZZA DI JANINE

Ricordo  come fosse ieri, il giorno nel quale i miei occhi furono deliziati dalla sua vista per la prima volta.
Era una calda giornata di fine primavera, il sole iniziava a farsi più audace e Parigi andava riempiendosi di turisti, rinvigorita dal suo fascino romantico.
Quell’anno lo ricordo particolarmente bene, visto che proprio in quel periodo venni colpito per la prima volta da una mancanza assoluta e oziosa di ispirazione artistica. Non riuscivo più a disegnare nulla, la mia mano non tracciava più linee dritte su un foglio da un’eternità, le mie qualità di artista si erano così affievolite che mi pareva un’impresa persino dare vita alle riproduzioni che mi chiedevano i miei clienti più assidui. Inutile dire che mi lasciai prendere dal panico quasi subito, annegando la mia disperazione nello spreco di denaro più assoluto, nella solitudine e nella depressione.
Non ricordo con precisione dove si trovasse il piccolo caffè nel quale solevo perdere le mie giornate, ma ricordo che era un posto poco trafficato, nascosto in un vicoletto tortuoso della città, dove i turisti non arrivavano se non spinti da qualche guida.
L’unica cosa che lo rendeva famoso nelle vicinanze era un il televisore nuovo che la proprietaria aveva comprato per guardare le partite di calcio dei mondiali.
Si chiamava “Chez Lorene”, nome piuttosto femminile per un locale piccolo e volgare come quello. Il colore che prevaleva su tutto era il marrone: qualsiasi cosa era in legno o finto legno, le mura erano state accuratamente imbiancate di marrone per dare quell’impressione, le tovaglie dei vecchi tavoli erano di un color nocciola che rendeva il tutto molto grossolano. Se non fosse stato per i quadri ritraenti varie pin-up, vecchie pubblicità anni ’60 e locandine di film dello stesso periodo, nessuno avrebbe mai compreso che il locale era ispirato agli Stati Uniti di quell’epoca.
Madame Lorene, l’opulenta e imbronciata proprietaria, era così orgogliosa del suo caffè che nessuno si era mai permesso di dirle nulla in proposito del suo cattivo gusto.
Dunque, ormai appassito dalla mancanza del mio genio artistico, mi consolavo passando le mie giornate a bighellonare in quel posto volgare, a bere rum e a ciarlare con gli squattrinati clienti abituali di Madame Lorene. Credevo che in un posto per popolani come quello, privo d’arte ed estetica degna di questo nome, nulla avrebbe potuto farmi sentire un artista fallito.
Come potevo sentirmi inferiore a qualche mio collega lì, dove l’unica cosa di buon gusto era l’insegna? Speravo che la mia autostima potesse riprendersi in fretta, ma dovevo fare i conti con l’improvviso senso estetico che Madame Lorene stava per dimostrare.
Quella giornata di maggio, arrivai al caffè verso le undici di mattina, come sempre.
Il mio umore era particolarmente nero, la vista della città così armoniosa mi rendeva ancora più schiavo della mia fase oscura.
Mi sedetti al solito tavolo fuori, sotto un consunto ombrellone color cioccolato, leggendo il giornale; ordinai un caffè e, forse non mi sarei accorto che la mano che poggiava la tazza davanti a me non era quella grassoccia di Madame Lorene, se la donnona non avesse chiamato la sconosciuta a gran voce:
“Janine, Monsieur Guerin a donné un pourboire puor toi!”
Alzai gli occhi d’instinto e mi trovai davanti a qualcosa di veramente meraviglioso: un volto femminile degno d’esser chiamato tale. Era un visino ovale, caratterizzato da dolcissimi occhi verdi, messi in evidenza dalla pelle abbronzata della ragazza. Un nasino elegante e all’insù attirava lo sguardo, per poi lasciarlo ricadere sulla sua bella bocca succosa, increspata in un sorriso.
Rimasi stupefatto: mai avevo visto più grazia espressa dalle ciglia d’una donna, mai avevo potuto ammirare una pelle più perfetta di quella, mai i raggi del sole avevano giocato tanto bene come facevano con i riflessi biondi di quei boccoli.
“Ah, oui Tante?” rispose la giovane, zelante, dirigendosi verso la cassa.
Estasiato dalla visione di quella immensa bellezza, chiesi a Madame Lorene chi fosse.
“Elle est la fille de ma soeur” mi rispose la donna, mentre puliva il bancone con molto olio di gomito.
Mi spiegò in seguito che la giovinetta aveva quattordici anni e aveva lasciato la scuola, così la sorella aveva pensato di mandarla a lavorare da lei, per non lasciarla in balia del suo destino.
Pensai immediatamente che l’ironia della sorte era molto sottile: una donna sgraziata come Madame Lorene aveva come nipote la grazia fatta persona. Infondo se il gusto dell’orrido della donna si era guadagnato clienti grossolani, la grande bellezza della piccola Janine ne fece guadagnare il doppio.
Già poche ore dopo la sua entrata nel caffè, la nipote della proprietaria aveva fatto scalpore e portato diversi curiosi a prendersi “un pot” per vederla.
Per quanto mi riguardava, la mia depressione non migliorò affatto alla vista della bellissima ragazzina. Quel giorno fu piuttosto disastroso per la mia autostima: il Signore era stato un artista assoluto a creare una cosa tanto meravigliosa. Certo, era stupido sentirsi un artista inferiore rispetto al Creatore, ma il mio ego distorto non trovava pace nemmeno in quella vista così appagante.
La studiai tutto il giorno, mi aveva scosso così tanto che ricordo ancora cosa indossava e come si muoveva.
Era alta, aveva un corpo snello e affusolato, affatto goffo come le altre sue coetanee, le sue gambe erano lunghe e lisce, scoperte da un paio di calzoncini rosa chiaro. Portava una maglietta bianca di cotone a maniche corte e la pelle appena ambrata da quel sole più caldo, sembrava caramello rovente.
La cosa più elegante del portamento della piccola e magra Janine era il modo di camminare: per non parlare della catenina d’argento che aveva legata attorno alla fina caviglia sinistra! Le dava il tocco magico, soprattutto accostata alle scarpe da ginnastica di tela nera.
Era il capolavoro più bello che si potesse avere la fortuna di vedere.
Nei giorni e le notti seguenti non ci fu che la bellezza di Janine nei miei pensieri.
Non facevo che pensare a quanto era assurda la grazia trasudata dalle sue mani, a quanto sembrasse sempre a suo agio, a quanto fosse semplice e ingenua. Ella non sapeva di essere bella, era così presa dalla vita nel locale che non si chiedeva perché chiunque la guardasse.
Non era possibile che la titolare d’una tale bellezza non peccasse di superbia, se avesse visto davvero l’immagine che lo specchio le rimandava; era meglio così, la sua ingenuità la rendeva ancora più bella.
Iniziarono ad affluire al locale orde di ragazzini, uomini, studenti e anche qualche lavoratore straniero.
Ricordo che quasi nessuno dei suddetti sapeva cosa ordinare (nonostante il menu non fosse così vasto), richiedendo sempre il consiglio di Janine. Allora la ragazza prendeva ad elencare tutto quello che il caffè offriva, alzando gli occhi verso il soffitto, concentrata per ricordare. Che tesoro che era! Quando pensava di aver dimenticato qualcosa corrugava le sopraciglia e sulla pelle dorata della sua fronte si formava una deliziosa rughetta. Gli uomini e i ragazzini, estasiati, rimanevano ad ascoltare la sua vocina dolce fino a che non avesse finito il suo minuzioso elenco, per poi prendere il solito caffè o succo d’arancia.
Per quanto mi riguardava li trovavo ridicoli. Certo, passavo anche io l’intera giornata a perdermi nella bellezza meravigliosa di Janine, ma evitavo di infastidirla o di essere maleducato: me ne stavo seduto al mio solito posto ad osservarla segretamente. Dopo una settimana conoscevo tutte le sue espressioni e sapevo tutti  i gesti che la imbarazzavano.
Lei, d’altro canto, non mi guardava quasi mai: mi salutava al mattino e alla sera, ma quando rimanevo l’unico cliente si metteva a pulire il bancone a testa bassa.
Un giorno, circa due settimane dopo il suo arrivo, la pizzicai a posare lo sguardo su di me: subito abbassò la testa e si rimise a pulire il bancone con lo straccio, con le guance che lentamente diventavano color porpora.
Se tutte le mie notti le passavo nel tormento di quella bellezza, quella notte la passai chiedendomi se Janine avesse un debole per me. La mia mente suggestionabile di artista vagava, arrivando ad immaginare se mai avessi potuto godere della vista di tutta la sua pelle, di ogni centimetro del suo corpo. Mi chiesi che colore avrebbero preso i suoi occhi se l’avessi sfiorata dove una ragazzina di quell’età non sa che si ricevono le carezze. E le sue gote? Il rossore l’avrebbe certamente invase se l’avessi baciata.
Roventi, ecco come furono i miei pensieri di quella notte; parve non finire mai, fu un bagno di sudore infinito, crogiolato nel dubbio e provocato dal pensiero di quelle coscie così lisce … Dio, un uomo della mia età non poteva guardare una bambina!
Ma era bella, troppo bella. Un capolavoro della natura, l’opera d’arte più bella che avesse mai dato luce alla mia vita.
Come potevo non amare tutto ciò, io che ero un artista? La mattina dopo, quando vidi il sorriso raggiante della piccola Janine, tutta la vergogna e l’agonia provate quella notte svanirono nel nulla.
Certo, la desideravo, ma non come un depravato o come uno dei ragazzini che la ammiravano. Desideravo lo spirito artistico che albergava in lei, desideravo produrre anche io un’opera d’arte come lei, che stupisse il mondo.
Più la guardavo, più mi stupiva. Più mi evitava, più voleva guardarmi. La sua manina tremava quando mi portava il caffè di mattina e lo faceva anche la sera, quando prendeva la mancia che le lasciavo sul tavolo.
E non è forse l’arte stessa che ama l’artista? Janine e io non avevamo speranza di amarci. I venti anni che ci separavano, la società non li avrebbe mai accettati.
Allora cosa potevo fare per non lasciar correre una bellezza simile? L’amore mi corrodeva, pareva che le mie giornate non avevano senso, non la notte, quando lei non era presente. Volevo solo ammirarla.
E l’avrei ammirata per sempre.
Un mattino trovai una matita accidentalmente dimenticata sul tavolo dove solevo sedermi.
Un segno del destino?
La mia spada d’un tempo ormai m’era nemica. La guardai con diffidenza, quasi nauseato.
Sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti con la mia arte senza un bicchiere di rum davanti agli occhi, ma non mi sentivo affatto pronto.
Presi tra le mani quella matita, sudando freddo: erano settimane che non disegnavo e tutto ciò che avevo disegnato prima era stato un fallimento. Sapevo che non avrei sopportato un altro buco nell’acqua. Meditai a lungo, poi presi con cautela un tovagliolo di carta, deciso a rompere la mia astinenza dall’arte.
In quel momento si fece spazio in me la consapevolezza di dover riprodurre l’unica cosa che mi ronzava in testa da tempo: la vidi intenta a preparare un caffè, con i capelli dorati che le circondavano il volto, la mia bella Janine.
Promisi a me stesso che se non fossi riuscito a darle giustizia con un ritratto non avrei più messo piede in quel locale, non l’avrei più vista, perché in quel caso non meritavo di guardarla in viso.
Così deciso, devo dire che rispettai la mia promessa: impiegai un’intera giornata di scarabocchi e un migliaio di tovaglioli accartocciati, ma riuscii a farle un ritratto meraviglioso.
Incredulo di cosa avevo creato, ero sicuro che era stata la forza dell’amore a compiere quel miracolo, oppure era stata la bellezza di Janine a guidare la mia mano sui suoi tratti e a dar vita a quella meraviglia.
Quando l’ennesimo gruppo di adolescenti se ne fu andata, mi avvicinai alla mia musa; ancora ricordo il rossore che sorprese le sue gote e lo stupore nei suoi occhi, quando mi vide appropinquarmi a lei.
La guardai dritta in viso, lasciandomi inebriare dal suo profumo leggero; mai m’ero avvicinato tanto a quella meraviglia. Sorridendo divisi i due veli del tovagliolo sul quale avevo riprodotto la sua figura, tenendo il calco e donandole l’originale.
“Pour Vous, Mademoiselle” dissi, nel mio francese migliore.
La ragazza lo guardò e si portò una mano alla bocca, come se si vedesse allo specchio per la prima volta.
“Merci Monsieur! C’est… C’est… encroyable!” balbettò, tutta rossa e felice.
“Comme Vous” le risposi girandomi e andando via.
Il giorno seguente non tornai al caffè, ma mi dedicai a portare il calco del ritratto su tela. Dopo varie settimane di lavoro, la mia giovane musa era lì, che mi guardava come se fosse vera. Il risultato del mio lavoro era spettacolare, fu il mio capolavoro migliore, il mio cavallo di battaglia.
La critica lo amò, venne valutato tantissimo, quanto nessun altro mio quadro è stato valutato o verrà mai preso in considerazione.
Mi portò sulla cresta dell’onda, mi diede successo, cambiò la mia vita. Dopo quell’episodio, ogni volta che venivo colto dalla mancanza di ispirazione mi rifugiavo nel ricordo della leggiadria di Janine, senza esitare o a perder tempo con l’alcol e l’ozio. Appena tento di tracciare su carta il viso della ragazza, tutt’ora sento il brivido dell’arte che mi scorre dentro, come quel giorno nel caffè. Se non fosse stato per Madame Lorene e sua nipote, ora sarei un riproduttore d’opere squattrinato e alcolizzato.
Forse, se il mondo avesse saputo che avevo soltanto riportato la realtà su tela, non sarei considerato un grande pittore e la mia arte sarebbe chiamata squallida e volgare.
Non sono mai più stato “Chez Lorene” e non ho più visto la mia meravigliosa e dorata musa, quella fatta di carne e ossa, anche se a volte mi chiedo dove possa essere finita o come le va la vita. Credo, comunque che già essere a conoscenza del fatto che ella vive ed esiste davvero, sia una delle più grandi fortune per un’artista.
Un’altra fortuna?
Spesso mi chiedono chi voglio ringraziare per il mio successo e io mi sento onorato nel rispondere sempre:
“La bellezza di Janine”.

4 commenti:

  1. L'ho letto tutto ! Hai talento secondo me, e mi é piaciuta tanto questa frase "E non è forse l’arte stessa che ama l’artista?" ... Ma nel complesso, dal punto di vista grammaticale, l'accostamento delle sequenze narrative, descrittive e delle riflessioni del personaggio, non avrei nulla da ridire :) Ovvio credo ne sappia molto più tu di me D: e comunque, anch'io scrivo a volte (quando non leggo xD), ma mi si presenta molto spesso un ostacolo; non riesco a terminare ciò che inizio. Brevi racconti come il tuo quasi sempre riesco a finirli, ma se ad esempio dovessi scrivere una storia per intero non ci riuscirei. E' l'ispirazione che se ne via con la stessa velocità con cui arriva (dannata lei >.<).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Eh, quello è un problema comune... Spesso è difficile finire le storie, ma con un pò di costanza si superano anche i blocchi dello scrittore. L'ispirazione dopo un pò torna, è come un boomerang.

      Elimina
  2. Abbiamo una passione in comune, allora.
    Il mio blog, infatti, è tutto un racconto.
    Ho letto su un giornale un consiglio che dava Milly Carlucci.
    I racconti li puoi autopubblicare con Amazon a zero spese.
    Dicono che si riesca a guadagnare qualcosa.
    Anche la Feltrinelli ha ideato la sezione Storie Brevi, in cui si può spedire un racconto e, se pubblicato, retribuito.
    Potresti provare, no?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per ora voglio scrivere un pò di materiale per prenderci di più la mano, ma in futuro non si sa mai, grazie del consiglio!

      Elimina

Grazie per i vostri commenti! :)